Lo scorso 21 gennaio, John Dalhuisen, di Amnesty International, in riferimento al violento assalto del governo turco contro le città e i quartieri curdi, ha dichiarato “… Le operazioni attualmente in corso, col coprifuoco giorno e notte, stanno mettendo in pericolo la vita di decine di migliaia di persone e iniziano ad assomigliare a una punizione collettiva.” Colpisce il verbo iniziare associato alla Turchia in generale e alla questione turco-curda in particolare. Più che inizio qui si tratta di un “compimento” dell’instaurazione di un regime autoritario da parte di Recep Tayyip Erdogan e della sua cricca, che con tutti gli strumenti possibili vuole annientare un intero popolo ma anche ogni opposizione politica e sociale.
Sull’inizio dello sterminio kurdo la datazione non è certo recente e nella maggior parte dei casi è servita al governo di turno per creare consenso e per ricomporre le opposizioni interne tramite questo collante nazional-patriottico intriso d’odio. La nascita stessa del PKK nel 1978 arriva in risposta ad una sinistra rivoluzionaria pervasa dal razzismo anti-kurdo diffuso dal kemalismo. L’inizio dell’attuale sterminio politico è di più facile datazione. Nel 2008 viene ratificato l’articolo 301 del codice penale che rende l’insulto alla “nazione turca” un reato punibile. Nel 2011, iniziano ad essere promulgate una serie di leggi che limitano drasticamente la libertà di parola e di stampa, l’uso di internet ed impongono il divieto di riunirsi liberamente. Bisogna ricordare che nel 2011 nella regione turca del Mar Nero, si sono tenute decine di proteste contro il governo, relativamente alla costruzione di discariche di rifiuti, centrali nucleari, autostrade, fabbriche e dighe. All’epoca gli attivisti invitavano il popolo turco a una rivoluzione per la natura. Sempre per la natura e contro l’abusivismo edilizio di stato, nel 2013, nasce il movimento di protesta di piazza Taksim. Un movimento che più si rafforza, nascita di movimenti solidali alla lotta di Gezi Park a Smirne e Ankara, solidarietà della massa di lavoratori con lo sciopero generale del 5 giugno, più subisce la repressione poliziesca, fino alla palese volontà di annientamento sancita simbolicamente con lo sgombero dell’esperienza autogestionaria del parco di Gezi, avvenuto nell’estate del 2013, ma che alla base ha una lunga serie di morti e feriti durante le manifestazioni e di oppositori incarcerati e torturati. Nel 2014 mentre il vicepremier Bülent Arinç lancia strali contro il sorriso delle donne, attaccando il diritto all’aborto e propagandando la reintroduzione del reato di adulterio, Erdogan e il suo governo appoggia l’Isis soprattutto in chiave anti-curda nella guerra in Siria e nell’attacco a Kobanê in particolare. La resistenza di Kobanê e la rivendicazione di una autonomia senza stato crea però un nuovo clima; la causa kurda e la sua nuova idea di confederalismo democratico fa respirare una nuova aria solidale in Turchia, che porterà alla sconfitta del partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) alle elezioni del giugno 2015. La reazione di Erdogan non si fa aspettare molto. La strage avvenuta a Suruk, “agevolata” dal governo, colpisce proprio quell’opposizione sociale interna che si stava alleando con il movimento indipendentista kurdo. Ma non basta. A luglio parte un’ondata di arresti degli oppositori politici che non ha precedenti nella storia della Turchia. Forte dell’articolo 301 il governo democratico-dittatoriale di Erdogan a più riprese blocca Twitter, Facebook e Yutube, oscura siti e account, eliminando dal web immagini e foto poco gradite; sequestra e chiude alcuni giornali, incarcerando molti giornalisti. L’ultimo capitolo di questa escalation è la tristemente nota strage di Ankara. Non stupisce che in questo gioco al massacro, in questa partita truccata dalla violenza e dal terrore, Erdogan riesca a ristabilire l’ordine e a riappropriarsi del consenso che gli permetterà in novembre di vincere le elezioni. A questo punto si può compiere l’atto finale del massacro. Erdogan non deve nemmeno più usare il “paravento Daesh” che, in nome della “guerra al terrorismo”, aveva “favorito”, nei mesi precedenti, il bombardamento aereo di postazioni del PKK in Irak Siria e Turchia. Può agire apertamente. Quelle città a maggioranza curda che da luglio sono per periodi sempre più lungi poste sotto il regime di coprifuoco; che non hanno mai smesso di protestare e di far sentire la propria rabbia e il proprio dolore al mondo intero; che hanno dichiarato l’autogoverno, facendo proprio il progetto di autonomia basato su processi assembleari e sulle decisioni popolari; quelle città e province, ora, sono sotto assedio, sono in ostaggio dei carri armati dei cecchini e dei soldati turchi istruiti “sul fatto che contro ogni imboscata, sabotaggio, minaccia e attacco, vanno eseguite rappresaglie facendo fuoco.” e che non devono “dimenticare neanche per un minuto che ogni esitazione nell’uso delle armi da parte del personale causato dal timore di essere perseguito, potrà avere gravi conseguenze […], nel mettere in pericolo la sopravvivenza dello stato e della nazione … Così recita un documento ufficiale pubblicato dal Comando del 3° Battaglione di Carri Armati di Cizre/Şırnak e continua: “Le istruzioni vanno trasmesse a tutto il personale perché sia vigile e perché tenga presente che il nostro stato sta attraversando un periodo difficile.”
Più che lo stato ad attraversare “un periodo difficile” è il popolo che lo sta subendo. Gennaio dovrebbe essere un mese di festa: è il primo anno della vittoria di Kobanê, si vorrebbe parlare della sua ricostruzione, del coinvolgimento delle donne nella vita sociale, della scuola, della costruzione di nuovi rapporti sociali ma non si può. In questo mese in Turchia oltre alla morte dei 10 turisti, oltre all’uccisone di centinaia di uomini donne e bambini sono stati repressi anche gli ultimi tentativi di opposizione. Il 15 gennaio la polizia turca ha arrestato 12 docenti universitari con l’accusa di “propaganda terroristica” a favore del PKK perché hanno osato firmare e promuovere una petizione globale lanciata dal gruppo ‘Accademici per la pace’, con il titolo ‘Noi non saremo parte di questo crimine!’, in riferimento alle operazioni condotte da Ankara contro il Pkk nel sud-est a maggioranza curda, e che chiede una soluzione pacifica della questione kurda. Arrestati per aver espresso con una firma il proprio dissenso. L’arresto per aver manifestato il proprio dissenso in Turchia è un rischio che corre ogni individuo da quando, il 9 gennaio, la procura generale ha aperto un’inchiesta nei confronti di un autore e di un telespettatore del programma “Beyaz show”, dopo che quest’ultimo era intervenuto in diretta invitando la gente a non rimanere in silenzio di fronte alla morte di donne e bambini del sud-est del paese. Fatto che fa dire sempre a Dalhuisen di Amnesty: “Le autorità turche paiono intenzionate a ridurre al silenzio le critiche interne mentre ne stanno ricevendo ben poche da parte della comunità internazionale.” Se in Turchia l’opposizione è temporaneamente ridotta al silenzio dovremmo essere noi che diamo voce a quei silenzi, a sostentere quei 23 soldati delle unità speciali che hanno disertato dall’esercito turco proprio per l’acuirsi dei massacri, a quella voglia che c’è ancora di esprimere la rabbia e il dolore di chi sta morendo mentre gli “Stati” non fanno nulla troppo presi da “interessi strategici” e dal “ridurre i flussi di rifugiati verso l’Europa.” Se rimarremo anche noi in silenzio il genocidio politico non avrà più ostacoli. Se non possono farlo i kurdi e i turchi in Turchia dovremmo essere noi a ribadire ancora una volta che l’unico vero terrorista è lo Stato!
la bombasina e co.